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Le streghe son tornate! E son postmoderne

 

La serata di venerdì 8 Aprile al The Public House di Via delle Tre Cannelle a Roma, quando è stata presentata l’antologia “Streghe postmoderne”, per i tipi della Alter Ego, è stata  un autentico sabba letterario! I suoni minacciosi provenienti dal microfono in crisi tecnica indicavano inequivocabilmente la presenza anche di un poltergeist, probabilmente un "principio maschile" che con i suoi grossolani grugniti cercava inutilmente di ribellarsi allo strapotere delle autrici. E tuttavia va rivolto un grazie di cuore a Marilena Votta per aver presentato e moderato una situazione potenzialmente deflagrante nella disperazione generale, a Eleonora Helbones per esser venuta dalla Toscana forse a cavallo di un manico di scopa, a SurreAlix Voyage En Caravane per l'installazione geniale e per tutta la bella energia nonostante la febbre o forse proprio per questa, a Raven Trieb sempre in prima linea per le Streghe come a voler negare che siano in via d’estinzione, a Olivia Cinnamon Balzar per tutto l'impegno nella buona riuscita dell'evento, per quanto sapientemente nevralgico e contratto, a Liè Larousse per aver organizzato il tutto senza ricorrere a satanismi eccessivi, a The Public House per aver ospitato e calorosamente accolto tutta questa massa di sbandati illuminati ed esploratori dell’ignoto, a Dj Triskel per la musica davvero perfetta per la situazione e quindi angolare ed estraniante, a Stefano Borsini per le foto che hanno documentato il macello, e grazie in generale a chi c'era, con tutto il suo carico di angustie, e a chi ha vissuto insieme alle autrici una serata assolutamente all’insegna della devianza maliziosa e un po’ sofferta. Non vi dico le facce, tra il pubblico! C’erano alcuni che sembravano testuggini soprattutto perché, leggermente sordi, allungavano il collo e la testa rugosi per ascoltare meglio; altri, dotati di una superiore sensibilità, piangevano per tutto il tempo intravedendo tra le lacrime lo sfarfallio di qualche spirito sospeso evocato dai discorsi e dalle letture delle autrici; alcune ragazze altolocate scuotevano la testa per mantenere le fottute apparenze ma intanto sognavano di imparare a farsi rispettare come le streghe presenti; infine, per farla breve, c’erano in prima fila dei buongustai che si dicevano l’un l’altro, dandosi di gomito: “Aoh, messe così in fila, queste, sembra che ce le possiamo scegliere!” Naturalmente non c’è tanto da scherzare, contro amazzoni dotate di penne tanto fosche e caustiche, ma non mancano mai i ceffi di avventurieri che accettano la sfida e cercano addirittura di farsi offrire loro il pranzo da queste donne oblique in cambio di qualche carezza da debosciati. Se la vanno a cercare; “stolti!”, esclamerebbe un bisnonno.

Ma veniamo ai sinistri cimenti di queste donzelle dalla grazia ingannatrice. Nella prefazione si esplicita, con giocosa ma profonda adesione, il segreto di queste anime ispirate: sono pericolose perché problematiche, hanno qualcosa contro cui ribellarsi, sanno che non sempre si vince e anzi talvolta sono ingiuriate da maledizioni contro cui lottano senza temere né l’abisso del precipizio né la natura grottescamente pop degli intrippi sociali più contemporanei, tipo la malevolenza e la derisione. Sono diverse, freaks offerte come vittime autoimmolate sull’altare dell’inquietudine per rifuggire dal conformismo e dalla passività cui il loro rimuginare le rende allergiche. Misteri e fantasie oscure, dunque, si affastelleranno durante la lettura, come coltri diafane in cui rifugiarsi per soffrire, in libertà, di una consapevolezza “ulteriore”.

Nel primo racconto, “Epidemia”, la leggendaria ex performer e scrittrice di discretamente consolidata fama Ilaria Palomba gioca con le sue identità plurime come talvolta fa, con sfiziose allusioni autobiografiche anche nel suo ultimo “Homo homini virus”, proponendo stavolta una coppia di scrittrici in cui il lesbismo mostra solo un lato velatamente conflittuale: l’autrice più affermata è sorniona nel marcare la distanza dalla sua collega di scrittura più inesperta quando fa capire di essere stata capace di caricare tutto il Male del mondo nel suo ultimo diffusissimo romanzo, giungendo così, lei che sa davvero come tenere avvinti i lettori, a contaminare tutti e tutto di un morbo spaventoso che dissolve la gente nella pioggia e nella nebbia (simbolo di alienazione e indifferenza sovrane) e a far viceversa apparire un po’ dappertutto schifosi mostriciattoli roditori che attaccano gli uomini insinuandosi a volte al loro interno o muoiono in massa accumulandosi inerti per le strade infettando l’aria stessa. Evidente, come dichiara l’autrice stessa, il rimando a “La peste” di Albert Camus; mentre però il filosofo esistenzialista ambientava la storia nell’Algeria francese, la Palomba con questo fantasy neogotico urbano attacca con la virulenza del suo spirito critico una società contemporanea fin troppo stracolma di tutto rendendola invece un grigio deserto tardo autunnale in cui anche gli artisti non riescono più a trascinare istanze di rigenerazione e anzi, con i loro “esorcismi” scaricano il peso della loro condanna etica sul mondo determinandone il collasso definitivo. Il meccanismo narrativo è efficace proprio perché il punto di vista prevalente è quello della scrittrice in erba, la cui intuizione acerba non pone al riparo neanche lei dalla dannazione voluta dalla sua compagna, che sentiamo distante come un deus ex machina al contrario della tragedia. Le illustrazioni as corredo del racconto sono tre versioni diverse di un doppio: un volto fuso verticalmente con un altro di cui condivide gli occhi da Pierrot. Il nesso con la storia è da investigare: si può supporre che le due scrittrici siano complementari, che cioè l’una tenti di emergere e che sia, come gli altri, vittima patetica e forse un po’ invidiosa dell’altra (eppure è lei che racconta), la quale una volta realizzata fa scontare a tutti le incertezze che anche lei a suo tempo ha dovuto sopportare e che ora rinnega imponendo la sua superiore visione della grettezza universale. L’opera grafica è stata anche realizzata in una copia su legno e montata su una sorta di piccolo motore da ventilatore in modo che le due facce ruotino incessantemente come se fosse un’elica schizofrenica.

Nel racconto di Giorgia Mastropasqua, dal titolo magniloquente e magnetico “Autoimmunità del piano astrale”, la leggerezza tardo-adolescenziale di un piccolo gruppo di studenti di liceo classico, in una scoglionata e provinciale cronaca di bighellonerie naÏ,e cose buone fanno male"amo, asro, li possin', ma anche due degli altri tre sgranarono gli occhi e proruppero in esclamazioni tve-decadenti da mitizzare poi negli anni, tipo i “cento giorni”, trascolora perdendosi nel contesto davvero straordinario di un’apparizione e una sparizione. L’ambientazione sofisticata ma fatiscente della villa abbandonata sembra prima preda, pur nella descrizione puntuale e dettagliata, della vitalità dei ragazzi, ma poi le ombre si materializzano, nel soppalco della torretta delle streghe, precedute da suoni, voci e tonfi. “La paura porta con sé un disperato bisogno di capire tutto, una volta per sempre”. La luce, l’atmosfera, il carattere apparentemente innocente dell’apparizione conducono ad una strana forma di familiarità con essa, e la ragazza “avrebbe provato a seguire quella logica bislacca” e allora si comincia a entrare in una dimensione di simbolismi, si scivola in un gioco privato, in una condivisione intima di segreti, in cui gli incantesimi hanno più probabilità di verificarsi ed “un banale movimento contrario al destino” non basta più a far riemergere dalla sua vischiosità. La cera assolve alla sua funzione e la ragazza è avvinta ora in un nuovo piano astrale, dall’”esaltazione autoimmune”. La citazione di Freud in epigrafe è volutamente vaga, crediamo, non aiuta molto a capire, ma il tempo sarà tanto, è la sua qualità ad essere estraniata, probabilmente folle, e lo stesso lettore è inutile che si attardi a chiedersi la ragione dei singoli dettagli femminili dietro cui si perdono le coordinate. I disegni abbinati al testo sono di Natascia Raffio, pluripremiata artista che cesella vezzosissimi ornamenti e talvolta impalcature araldiche, un pop-surrealism con ammiccamenti liberty sottili e definiti nel dettaglio. La bambina misteriosa col vestito a righe appare anche in copertina e uno dei gatti di Villa Noce è sulla sua testa insieme alla crocchia nera di capelli, si confonde con essa e occhieggia dallo sfondo buio punticchiato di polline di stelle, il “piano astrale”.

Il racconto di Olivia Balzar, “Le cose buone fanno male”, si presenta come quello più radicato nei melodrammi quotidiani, anche se la visceralità del quadro emotivo è espressa con violenza tellurica, spingendo a trovare nel dolore della protagonista, sia pur ricca e annoiata per sua stessa ammissione, una giustificazione psicologica anche se non etica per le sue azioni devastanti. Il compiacimento della crudeltà di rimbalzo, dunque, è il tratto caratteristico di una storia che non indugia a mettere in scena la cattiveria più efferata, in quanto ingrediente pulp declinato al femminile, una novità rispetto alle tante narrazioni violente e acide in cui a fronteggiarsi sono sempre i maschi. Lo spunto di riflessione riguarda la freddezza che deve accompagnare, come spiega poi l’autrice alla platea in sede di presentazione, chi si trova di fronte non la solita contrarietà ma qualcosa di grave, qualcosa che perfino ci scippa via il nostro mondo; in quei casi si deve restare esteriormente calme ed analitiche e mettere a punto una risposta adeguata in termini belluini. Naturalmente c’è il rischio che la trama venga scoperta e che ne derivi un effetto domino, ma una strega in pectore che precedentemente aveva accettato di ricoprire il ruolo di moglie premurosa è talmente stravolta dall’offesa subita che è pronta ad affrontare ogni possibile deviazione. Lasciamo ai lettori scoprire se la machiavellica impostazione vendicativa della protagonista sarà tanto accurata e “ben cucinata” da sfuggire allo smascheramento e anzi marchiare con la dannazione il fedifrago. Le illustrazioni che accompagnano il testo, realizzate da Helbones – uno pseudonimo programmatico – sono molto incisive e nette, pur nella visionarietà, coniugandosi bene con il tratto letterario marcato della vicenda. Il tratteggio è oscuro e molto contrastato, ed è l’unico stile, tra quelli presenti nel libro, che contempla, oltre al bianco e nero, la presenza di un rosso denso come il sangue e come… il sugo!

Il racconto “L’espio del vento” di Liè Larousse è quello con gli accenti letterari forse più evocativi, con un’aura metafisica senza compromessi, ed echi di Lovecraft e dei suoi mondi paralleli nascosti alla vista e gelosi della loro conoscenza; qui la landa crepuscolare sembra trasmettere ai suoi abitanti, a giudicare, all’inizio, dal loro linguaggio, una saggezza accumulata in tradizioni misteriche che trasfigurano tutto a cominciare dal Tempo, stirato all’infinito e servito da un Vento che gli allunga tutto ciò che la genìa dei non umani sente di dover smaltire. I riferimenti spaziali e psicologici sono estremamente poetici e forniti di nomi che hanno il sentore arcano di leggende di un futuro forse parallelo a quello tecnologico che vivremo, un mondo in cui la Natura traccia sentieri ombrosi che congiungono la città, luogo perduto per antonomasia, e il Lago Tondo del Senzagiorno Altraterra e la vicina, indefinita, Boscaglia. L’indefinito è infatti il dominio di questa vicenda, in cui la storia d’amore galleggia sulle ali di carta di missive – è un racconto epistolare – che scompaiono nel vento dopo esser state lette, ed i messaggi esprimono l’afflato spiritualistico di anime che si cercano in sfere superiori, nel segno di sfuggenti forme d’Arte abitate dal fuoco, eppure, ancora, e incoscientemente nonostante i mille millenni di storia e di storie, non esitano a ferirsi. Il linguaggio può ricordare a volte l’impronta di dignità e rispetto della letteratura cortese, ma l’ambiente è oscuro e nasconde a stento la differenza tra il Postumanesimo che ospita e l’Animale Essere Umano, a cui tornare, o anche solo pensare a come si nutre, è “disgustoso”. Il corrispettivo visivo di questo mondo che suona nelle parole così arcaico anche se sfugge all’orizzonte in avanti, forse in un neo-medioevo senza tempo, post-catastrofe, è fornito da Madame Decadent, artista e performer di rara potenza che quando dipinge si avventa con avviluppante furore catartico sui supporti, sfumando a piene mani le sue creature oniriche di primitiva allucinanza fornendo loro un corpo archetipico e sfuggente come fantasmi ancestrali.

La novella conclusiva “Ricordami chi sono”, di Flavia Ganzenua, riporta in epigrafe una citazione dal film di culto “Picnic at Hanging Rock”, e parte dall’accenno quasi casuale ad una scena da festa casalinga finita per poi subito catapultare la protagonista, per effetto  di una telefonata ricevuta dal fratello, in un gorgo di sconcerto in cui, dopo un mancamento, reagisce un po’ in trance cercando di tornare all’origine di quel fatto che lei aveva rimosso. Proprio in quanto appartenente ad un mondo riconoscibile e sano, la accompagniamo in questa ricerca nonostante non appaia nelle condizioni di poterla condurre. È lei stessa, infatti, guidando verso una zona isolata, di notte, a visualizzare qualcuno che non c’è (più) nella realtà, ma che per lei ed il suo persecutore è tuttavia ancora estremamente presente. L’antagonista stesso emerge nel racconto, col suo peso trascinato in diverse fasi e ancora irrisolto nonostante il ritorno – anche lui – ai suoi luoghi d’origine. La storia diventa così il racconto fatale di un appuntamento non scritto, di un regolamento di conti, di una morte annunciata, di un fattaccio di cronaca a cui si sfugge una volta ma non la seconda. E il fatto che l’esito sia predeterminato dal destino aumenta il sentimento di paura che precipita dentro la voragine; forse l’antagonista vorrebbe evitare di chiudere il cerchio, ma la vittima è come se dovesse salvare una sua se stessa a costo di provocare però la dannazione di un’altra sé. Le illustrazioni che completano quest’ultimo racconto sono opera di Tamara Cascioli, che in modo descrittivo ha interpretato sia il convergere notturno dei due protagonisti della storia verso la loro nemesi, con enfasi sull’aspetto da bruto scarnificato di lui e la duplicità di lei, vittima innocente e donna incatenata al ricordo ossessionante, sia, in sintesi lineare, il ricongiungimento simbolico, tenero ma inutile, delle due, nel buio maleodorante del capanno. La strega qui è una donna infestata dal proprio passato, e questa motivazione – il trauma – non fa che incidere sulla chiusura del libro la matrice di tutte le inquietudini delle donne strane, disturbate e disturbanti: un’aggressione, sociale, psicologica o materiale. Ci saranno anche le eccezioni, le smanie gratuite, i deliri ereditari, ma qui non sono contemplate, qui regna la regola dell’essere strega com’è spiegata da loro, le femmine contro. Ragazzo sfacciato che vuoi incontrarle, chiedile di spiegarsi, magari ci riesci, però occhio agli artigli.

Una spettatrice della presentazione, infatti, il giorno dopo ha lanciato la sua impressione: “Molto bello. Sì, grazie tante a te, Ilaria Palomba, e a tutte le altre, per le emozioni asprigne che mi avete fatto provare. Che gusto, ci voleva, aaahhh!”

 

Il7 – Marco Settembre

Da sinistra: Tamara Cascioli, Ilaria Palomba, Marilena Votta.

Ilaria Palomba legge un passo del suo racconto.

Marilena Votta legge un brano del libro, sotto lo sguardo attento di Olivia Balzar.

Una illustrazione di Helbones.

Tamara Cascioli.

(Tutte le foto di quest'articolo sono di Stefano Borsini photographer).

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