il7 - Marco Settembre
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Lo squadernamento della grande bellezza
A controprova del fatto che a fronte della sempre sventolata crisi nell’andamento industriale e commerciale del cinema italiano, le risultanze artistiche e culturali non di rado sono di buon livello, ecco deflagrare in questi giorni davanti ai nostri occhi la stratificata complessità de “La grande bellezza di Paolo Sorrentino, pellicola che ha saputo sostenere il peso delle annunciate ambizioni con un linguaggio maturo, intenso e piuttosto originale; impietoso sarebbe il confronto con “To Rome with love” dell’appannato Allen. Sin dall’inizio, la vista delle terraz-ze romane ci introduce ad un gioco di piani à la Escher in cui il proliferare di scene e scenari è segnato dall’ eleganza un po’ patinata e un po’ chiassona ma anche dalla transumante e a volte su-data folla della cosiddetta “varia umanità” di una Roma allegorica, dallo sfarzo moderno allucinatorio, prevalentemente notturna, ammiccando anche al “Viaggio al termine della notte” di Celine. Assecondando infatti il luogo comune che vuole Roma come città delle “distrazioni” più o meno peccaminose, del succedersi infinito di feste a tutti i livelli di mondanità, il confermatissimo talento di Paolo Sorrentino ci propone, per questo viaggio immersivo nella città eterna del terzo millennio, proprio un festaiolo modello, anzi il sommo tra i viveur, quel sessantacinquenne Jep Gambardella (impersonato magistralmente dall’ attore-feticcio del regista napoletano, un Toni Servillo in stato di grazia) che con la sua carriera tra giornalismo e organizzazione di eventi sembra voler dimostrare che a Roma (ma non solo qui, temiamo) le ambizioni culturali è più salutare che siano accompagnate da una vocazione al marketing di facce, ma anche alle public relations sfacciate e soprattutto all’organizzazione di eventi del godereccio. Jep però, mentre da un lato è perfettamente riuscito nel suo intento di divenire “il re dei mondani”, con facoltà, come dice, di decretare vita e anche morte delle feste in cui è coinvolto, d’altro canto non può nascondersi il disfacimento evidente (salvo a chi si ostina a non volerlo riconoscere) di quelle stesse facce e corpi che gestisce con dichiarata misantropìa, come lui stesso rivela nel corso della scena delle chiacchere con le sue amicizie “storiche” tra cui la caporedattrice nana del suo giornale, tra le poche figure positive. È plausibile che “per farsi prendere sul serio, bisogna prendersi sul serio”, ma lo sfavillìo di uniformi dell’ appariscenza e lo spessore diseguale delle ambizioni creative sbandierate o solo dichiarate (emblematico, ovviamente, il caso dello scrittore con difficoltà nell’”emersione” interpretato da un godibilissimo, decadente e affannato Verdone, che pure con una botta d’orgoglio riuscirà a negarsi al “vortice”, nel finale) mal dissimula il cinismo, il pressapochismo, il di-stacco, l’arroganza, la sciatteria, lo snobismo, in due parole la miseria marcescente di cui s’ammanta, come di lussureggianti barocchismi, questa Roma, paralizzata però, a dispetto di tanto attivismo e arrivismo, dinanzi alla ipnotica maestosità della sua (passata) grandezza. L’altra dimensione del film è infatti questa sorta di metafisica crepuscolare e mozzafiato, che circonda il brulichio megalomane, provvedendo così in silenzio, a tratti, ad ero-derlo, a sottrargli ancora di più il senso, senza tuttavia che per gran parte del film sia ravvisabile un’alternativa. La suggestione suggerita dalla fede cattolica e dai suoi apparati infatti si mostra per quello che è, pur nell’at-tenzione del regista a non cadere in semplificazioni e a mantenere la verità delle sconcertanti contraddizioni (anche) dell’ alto clero: il cardinale (Roberto Herlitzka) non fa altro che “apparire” e discettare di cucina, però ad una domanda diretta sulla sua attività di esorcista lancia un “benedicite” e si rifugia nell’ombra. Quel che più resiste al consueto esercizio di smontamento globale di certezze e di illusioni, di identità e riti, è la spiritualità radicale di un personaggio, la decrepita santa, che pure, nel contesto generale assolutamente agli antipodi ri-spetto al concetto di penitenza, è a serissimo rischio di grottesco, non fosse altro per la sua faccia (c’è n’è un’ oceano nel film), che si direbbe a buon diritto una maschera. Il film, nonostante non abbia conseguito premi a Cannes, si è potuto fregiare del titolo di “Film della Critica” e a ragione, diremmo, considerando, oltre ai contenuti della pellicola, anche l’indubbia qualità fotografica (curata da Luca Bigazzi) e l’aderenza dell’impianto narrativo scelto – quasi a-narrativo, si potrebbe dire, a parte l’evoluzione emotiva del protagonista – alla qualità filosofico-esistenziale delle tematiche, accorgimenti che fanno di “La grande bellezza” un lavoro conturbante che ricrea in chiave contemporanea i contrasti presenti in chiave più popolare(sca) nel “Roma” di Fellini o nell’ineffabile un po’ utopica eleganza de “La dolce vita” del maestro riminese. “Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza”, così, anche nella storia di chi per certi versi ce l’ha fatta, restano semisepolti nella memoria sotto strati e strati di apparenze, cerimonie e artificiosità che hanno altrettanti, dissociati, rovesci della medaglia illustrati non solo con le immagini ma con dialoghi sempre intelligenti e pungenti (ad esempio, il figlio “disturbato” perché sin troppo ricettivo della ricca borghese, il male sottaciuto che affligge la matura spogliarellista – da basso impero romano il contributo di Sabrina Ferilli, il calcolo teatrale dei minimi gesti che si cela dietro i comportamenti ai funerali, la fila dal chirurgo estetico per i grotteschi ritocchi al botox a minimo 700 Euro al “colpo”), il personaggio illustre ma defilato che si scopre protagonista delle solite ruberie d’alto cabotaggio, i nobili decaduti che accettano compensi per comparire alle feste in nome dell’impe-rante presenzialismo, mentre viceversa favolose opere d’arte restano rinserrate gelosamente in palazzi chiusi. Baluginano come apparizioni rivelatrici di qualche surreale segreto, invece, i cameo di Fanny Ardant, breve in-contro nel cuore della notte, di Antonello Venditti, altro simbolo vivente della romanità odierna, incastonato un po’ pensoso, certamente “vissuto”, in uno dei tanti locali dall’atmosfera torbida; e anche, nascosto tra dissol-venze in nero durante una carrellata celebrativa quanto malinconica sul Tevere, la fantasmatica sequenza di Mr. Ok che da un ponte si tuffa nel fiume alle 5 di mattina (mentre in realtà eravamo abituati a vederlo fare solo alla mezzanotte di Capodanno), ennesimo brevissimo flash di questa Roma quasi da realismo magico, sicuramente avvitata nei paradossi, che nonostante qualche critica speciosa si guadagna sicuramente delle identificazioni in molto pubblico, affascinato, nei tempi di questa crisi da moltissimi lamentata e da troppi negata, da questo universo babelico di personaggi che è appunto sontuoso e disfatto insieme, e ciascuno veda la parte di verità che più gli aggrada. È questo in definitiva, il funzionamento de L’apparato umano (che è anche il titolo dell’unico, ma notevole parto letterario di Gambardella, rimasto senza seguito per il momento, in mancanza, pare, di una grande bellezza da raccontare per un uomo in buona parte inaridito): voler capire o non capire o dissimulare il malessere e i contrasti; ma con una colonna sonora composita dalla durata monstre (quasi pari a quella del film) e marchiata dal Choir Of The Temple Church impegnato nell’ interpretazione di The Lamb di John Tavener, dalla celebre poesia di William Blake, alla fine il senso di sacralità (magari laico) ci sembra che prevalga su “l’uomo miserabile”!
il7 – Marco Settembre
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