il7 - Marco Settembre
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Oblivion: riscattare l'umano
Lo spettacolo desolato ma maestoso di un pianeta Terra stravolto da una lunga guerra con alieni e in cui le tracce della presenza umana risultano semi-cancellate ci accoglie riempiendo il nostro sguardo all’inizio del nuovo kolossal fantascientifico post-apocalittico di Joseph Kosinski. Il regista del sequel di Tron piazza, in questo Oblivion, la presenza scenica del cinquantenne Tom Cruise al centro di scenari mozzafiato, regrediti forzatamente allo stato naturale, e cioè segnati solo da sparute vestigia della civiltà umana, sebbene la guerra con gli alieni sia stata alfine vinta. Cruise, nei panni, pardon, la tuta di Jack Harper, è un guardiano addetto alla manutenzione dei droni e si gode il panorama con più di un pizzico di nostalgia, nonostante il conflitto nucleare abbia spazzato via la Luna, con il conseguente corollario di tsunami e terremoti. In giro, a svolazzare sull’equivalente futuristico di un elicottero, c’è solo lui: tutti gli umani si son trasferiti da tempo su uno dei satelliti di Saturno, e lui è coadiuvato da una donna, sua moglie (Andrea Riseborough), con cui com-pone una “squadra efficiente” e che lo supervisiona da una sorta di torre di vedetta sospesa tra cielo e terra in cui lo aspetta ogni sera. Inoltre un'entità suprema, che si chiama Tet, si manifesta da Titano (il satillite di Saturno di cui sopra) con i collegamenti video di Sally (Melissa Leo), che coordina Jack e Victoria. Siamo nel 2077 ed i suddetti droni a loro volta sono stati assegnati alla difesa delle gigantesche trivelle che pompano energia dal mare verso la lontanissima colonia terrestre.
Non troppo diversamente da Wall-E, il piccolo robot protagonista del brillante film di animazione di SF di qualche tempo fa, programmato per riciclare rifiuti metallici, Jack è rimasto l'unico abitante del nostro piane-ta, e condivide con noi, dunque, l’emozione di rievocare una finale del Super Bowl all’interno delle rovine dello stadio, mostrando, diversamente dalla sua compagna di squadra, di nutrire un’affezione umanissima per il nostro pianeta, anche se ridotto ad una riserva di energia.
È questo il nucleo del film, al di là della spettacolarità delle scene di azione e degli scenari emozionanti: il valore della memoria. La seduzione affascinante delle architetture minimaliste del futuro e l’efficientismo della nuova razza umana infatti non possono compensare il senso di struggente mancanza che abita quegli sterminati paesaggi dai colori sfumati, né possono spiegare a fondo il senso di oscura minaccia attribuito alla residua presenza di alieni che però non si vedono mai… E gli interrogativi senza risposta sono destinati ad aumentare quando fa la sua apparizione, nella vita di Jack e nel film, un elemento di crisi rappresentato da una misteriosa donna, scampata ad un disastro. Fin lì i sensazionali effetti visivi sono supervisionati da Eric Barba (premio Oscar per Il curioso caso di Benjamin Button), ma poi nel plot la dimensione della memoria, appunto, anche sottoforma di flashbacks, si impone reclamando una prioritaria fetta dell’emozione com-plessiva: Jack, come se avesse visioni vintage, proiezioni nostalgiche interiori di un vecchio film hollywo-odiano in bianco e nero, ritorna rapsodicamente con la mente sull'Empire State Building, cercando di rico-struire nei sogni o con la sua immaginazione, cosa accadde ad un appuntamento… Era Julia, la donna mi-steriosa (Olga Kurylenko) ad attenderlo, e questo, oltre che il proverbiale tuffo al cuore – implica che sussiste qualcosa di profondamente incongruo nella vita che sta conducendo, e più radicalmente, nella rappresentazione della realtà che finora aveva sempre accettato. Lo spunto alla Matrix prende forma in un meccanismo narrativo piuttosto ben calibrato; d’altronde il progetto ha una genesi lontana nel tempo, risalente a prima di Tron: Legacy: otto anni fa Kosinski fece di Oblivion una graphic novel, successivamente, dopo l’interessamento di Cruise come produttore, nacque l’idea di una versione cinematografica. E qualcuno comincia ormai a parlare della derivazione dei film hollywoodiani dai comics come di una costante produttiva, ormai, che non serve più da tempo a certificare la validità del fumetto come genere espressivo, ma fa sentire la sua influenza direttamente sul taglio delle sceneggiature, grazie ad esempio all’”animatic” (versione animata dello storyboard) o all’integrazione multimediale in sede di produzione vera e propria o forse alle strutture narrative e all’iconicità dei characters. Difficile, per i non studiosi delle strutture degli script, stabilire quanto questo sia vero, al di là di quelli che definirei piuttosto interscambi tra i due media di ritmi, stili ed inquadrature ed espedienti narrativi, e dei molteplici esempi di grandi trasposizioni cinema-tografiche delle avventure di eroi e supereroi della Marvel e dintorni, però sicuramente il personaggio di Jack è scolpito con nettezza caricandosi anche di riferimenti alla carriera di Cruise (il suo essere pilota e prota-gonista di missioni impossibili e capace di resistere anche ad invasioni aliene) ed è chiaro anche il debito nei confronti di opere filmiche di genere più o meno recenti, da “Moon” di Duncan Jones a, volendo, “La seconda odissea” di Douglas Trumbull, per il contrasto tra il ricordo del vero volto del nostro pianeta e la freddezza tecnologica del nuovo Ordine. In Oblivion non è la sensibilità ecologica ad agitare la superficie delle appa-renze, come detto, ma la questione della memoria e dell’identità, due concetti evidentemente ben connessi. In una distopia post-apocalittica come sempre visivamente affascinante al cinema, che ci porta più o meno inconsciamente ad apprezzare i pur grami tempi in cui ci dibattiamo, la speranza di una ricomposizione della verità è paradossale che sia affidata ad un personaggio che è un clone. E secondo alcuni è paradossale che il dibattito post-moderno sui simulacri baudrillardiani, dopo Blade Runner e il già citato Matrix si sia spostato sul piano bio-etico della clonazione senza trovare altre soluzioni narrative. A noi sembra che invece, tutto sommato, il gioco di specchi con cui la proliferazione di cloni di Jack Harper/Tom Cruise trova il suo inceppo in un clone che si ritrova a scrutare oscuramente attraverso il telescopio a gettone sul tetto del grattacielo, sia una evidente metafora delle rifrazioni dell’inconscio da cui nascono indubbiamente molte patologie ma in cui il senso d’umanità rintraccia molte delle sue radici. In questa moltiplicazione caleidoscopica – un fuori-campo tutto da immaginare – è fatale che emerga un elemento che spezzi la rigidità di un’organizzazione (aliena) basata sull’impostura. Morgan Freeman fa la sua parte (in tutti i sensi), per capovolgere la perce-zione dello status quo da parte di Jack e degli spettatori, ma la sua prestazione stavolta non ruba la scena. La trama risulta tutto sommato convincente anche se non imprevedibile e non di grande complessità, ma la confezione di sicuro si impegna a riscattare i difetti che i più incontentabili ravviseranno, grazie agli effetti visivi supervisionati da Eric Barba. L’incubo totalitario, per di più gestito da una razza aliena parassitaria, risulta ovviamente insopportabile, ma bisogna riconoscere, al di là del film, che l’ansia di perfezione fa scaturire mostruosità, ed il conflitto natura/cultura andrà governato con una certa attenzione al tema della clonazione se vorremo evitare il rischio non magari di farci clonare da extraterrestri schiavisti, ma di autoinfliggerci privazioni della libertà. In questo senso l’happy ending del film rende meno preoccupante e amaro il risvolto di filosofia morale. Eppure il dubbio permane: se la clonazione dei soggetti dal fumetto (o graphic novel che sia) al grande schermo non è una catastrofe ma anzi sembra benedetta dai botteghini, è possibile che anche la clonazione umana sia un bene, anzi proprio un antidoto alla morte? “Della serie”: muore uno, ecco che subentra un altro identitariamente identico (non solo nell’aspetto esteriore)? Ci piace pensare, come sopra accennato, che le copie, essendo composte anche di elementi inafferrabili, se vogliamo metafisici, non siano perfetti duplicati e che siano in qualche impercettibile, salvifica misura, diversi l’una dall’altra come… le fotocamere lomo, con cui infat-ti ogni scatto acquista quell’alone di passato segreto senza cui non ci si può proiettare nel futuro neanche a cavallo del più facile entusiasmo sull’ingegneria genetica. Ma che dico? In fondo è solo un film! Da vedere, però!
il7 – Marco Settembre