il7 - Marco Settembre
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Cosmopolis, l’implosione nevrotica del capitalismo
Era auspicabile che, in un periodo in cui rischiamo di dover razionare anche l’acqua per la pasta oltre alla benzina nell’automobile, e in cui alla guida del paese c’era un governo estremamente “tecnico” che però pare abbia perso l’appoggio dei “poteri forti”, sopraggiungesse qualcuno o qualcosa a fornirci qualche ragguaglio “teorico” con tanto di “messa in prospettiva” e non senza una certa eleganza nell’argomentazione para-filosofica, collocandosi a metà tra la parabola ad uso dell’uomo della strada e la silloge di spunti di riflessione ellittici. Questo qualcosa è “Cosmopolis”, l’ultima pellicola di David Cronenberg, in cui il cineasta canadese miscela diverse delle sue ben note ossessioni con la tematica di sapore fanta-politico-economico ma di cui possiamo assai facilmente scorgere gli immediati prodromi proprio nel mondo in crisi che ci circonda. In effetti, la tipica contrapposizione sincretica tra mente e corpo, tra strutture razionalistiche e visceralità del desiderio qui si misura con uno scenario planetario il cui senso viene ormai per lo più inutilmente investigato anche da chi è preoccupato non dall’estetiche e dai nodi dell’antropologia ma semplicenente dalla gestione delle utenze casalinghe. Il film è infatti tutto declinato attraverso il punto d’osservazione di un magnate della finanza giovanissimo; viene suggerito che le carriere più brillanti e le ascese più vertiginose saranno sempre più esclusivo appannaggio di una classe di individui freddi, rampanti e in carriera sin dai primi vagiti. Robert Pattinson, prescelto per la parte dopo aver scavalcato la prima scelta Colin Farrell, si dimostra perfetto, lasciandosi alle spalle il ruolo sostenuto nella saga di “Twilight” (e da cui già aveva preso le distanze, per la verità, lavorando in “Bel Ami”), e conferendo al protagonista il giusto mix tra algida indifferenza e spigolosità tormentata in incubazione, tanto da meritarsi, sullla locandina, il nome in caratteri cubitali alla pari col più maturo regista. L’agente di borsa plurimionario Eric Packer è in effetti il nucleo del film, la cui vicenda per buona parte è incapsulata nel suo bozzolo ambulante, la limousine scortata da guardie del corpo, all’interno della quale si sposta per tutta la città prevalentemente a passo d’uomo (a causa del traffico dovuto alla contemporanea visita del Presidente USA alla Grande Mela), diretto in particolare verso il suo barbiere di fiducia, all’altro capo della metropoli, ennesima autoconcessione poco pratica ma sfiziosa di un personaggio che può permettersi tutto, dal più idiosincrasico capriccio al possesso smodato e divorante di ogni cosa egli abbia a desiderare. E così, mentre Packer vive la sua giornata osservando dai finestrini la vita scorrere, immobile, in un eterno presente, con l’obiettivo secondario ma non meno importante di “aggiustare il taglio”, il taglio registico si presenta invece insistentemente claustrofobico nello snocciolare gli incontri, i colloqui e gli abboccamenti di lavoro del protagonista sempre dentro lo spazio iperprotetto, uterino e ipertecnologico e stylish della limousine, ideale non-luogo ed antro ginecologico in cui decidere, con sovrano disprezzo verso il mondo reale, sia i destini del flusso di denaro virtuale sia le posizioni del coito con l’amante. Accanto agli atti sessuali consumati in auto con toni da consumata libidine rituale e accompagnati da battute di dialogo sulla natura del desiderio, lato corporale e perverso della dimensione eccezionale di Packer rispetto ai comuni mortali, viene dato ovviamente ampio spazio alle discussioni professionali sullo spessore e la sostanza levigata, ma dal ventre molle e canceroso, della realtà fittizia che sta consumando quel cosmo supposto ordinato (dal capitale) cui allude il titolo. E tali dissertazioni in forma di dialogo risultano l’equivalente altolocato e sofisticamente irraggiungibile delle chiacchiere da bar, per l’aleatorietà ed il distacco con cui vengono pronunciate, fornendo un’interpretazione insistitamente elucu-brata delle analisi filosofiche o economiche che riempiono la letteratura sul post-moderno. In questo modo, lo spettatore medio del film può risparmiarsi di leggere classici come “La crisi della modernità” di Harvey o il più recente “Modernità liquida” di Baumann, ascoltando sedicenti consulenti o altri personaggi illustrare con diversa profondità e in frammenti incandescenti e a volte impenetrabili le diverse sfaccettature di un mondo inafferrabile, le cui apparenze caleidoscopiche mal celano la marcescenza. "Un uomo riesce a distinguersi ed emergere con una parola ma riesce a cadere con una sillaba". A proposito di letteratura, il progetto è la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Don De Lillo, in cui una certa iteratività dei pensieri ed una linea temporale piuttosto disgiunta tra narrazione al passato vissuta come presente e forte sentore di futuro assumono la forma e forse anche il respiro di un classico come l’”Ulysses” di James Joyce, ed infatti la storia si snoda lungo il corso di un’unica giornata nella quale l’iperintellettualismo dei modelli letterari si sposa con quello del regista e con lo stile di vita apparentemente impermeabile alla vita vera di questo giovane “vampiro” abituato a confrontarsi più con gli indici di borsa che con le persone, specie quando non riesce a “possederle”, come nel caso della sua giovane moglie aristocratica e dalla diafana e ipnotica bellezza, che asessuatamente procrastina il contatto carnale dimostrandosi in ciò altrettanto inumana, sep-pure in una forma diversa. Ma è il futuro, e le mutazioni, fossero anche solo psicologiche, sono da aspettarsi. In questo senso è stato scritto che il regista ha continuato a sperimentare anche in questo film, pur adottando il testo di De Lillo come se fosse una sceneggiatura “già pronta”. Cronenberg infatti rispetta la struttura del romanzo, basata sui dialoghi cerebrali, ma vi sovrappone il suo sguardo, articolato su allusioni e metafore visive, come quella della limousine, simbolo d’un mondo (quello della speculazione finanziaria) chiuso in se stesso, ma anche come quella dell’irregolarità che emerge nel protagonista (il taglio di capelli non completato, la prostata asimmetrica), dettagli che significativamente spezzano l’estetizzante ordine che il famigerato un per cento del mondo (i detentori del potere economico) pretenderebbe di imporre artificialmente, per i loro interessi tutt’altro che lineari. Il mondo reagisce anche se in maniera discontinua, caotica, a questo status quo: le strade di New York sono affollate per la visita del Presidente americano, ma ogni sommovimento è visto dall’interno della limo solo come l’ondata fisiologica e transitoria di un disagio primitivista che non tange chi può manipolare i massimi sistemi della valuta. Tuttavia i segni dell’inquietudine si lasciano più che intravedere: l’impennata monetaria dello yuan che preannuncia l’imminente fine del capitalismo selvaggio, e, a livello personale, Packer che cita Sant’Agostino quando dichiara: “Sono ormai un enigma per me stesso e questo è il mio malessere”. Ed infatti, malgrado la sua irraggiungibilità, l’uomo sembra spesso restare un palmo avanti rispetto ai suoi interlocutori proprio perché sufficientemente narcisista da spingere la sua analisi anche su se stesso, e compiacersi del suo maledettismo patinato che ne fa un degno oggetto di questo pezzo di teatro contemporaneo in pellicola. La verbosità spinta del film infatti è stato osservato che logora la capacità d’attenzione dello spettatore, ma al contempo prosegue la linea intrapresa con “A dangerous method” e aggiunge questa nuova variabile stilistica para-letteraria, appunto teatrale, e coltamente didascalica, ad un impianto visivo che rimanda invece ineludibilmente alla narrativa di Philip K. Dick, con il testo alla base del film “Blade Runner” in testa. Mentre dunque dall’esterno si scatenano attacchi di folle indiscriminate contro la limousine abbozzandola a calci e deturpandola con scritte eseguite con lo spray, ed il suo autorevole occupante lascia che a difenderlo siano le guardie del corpo, all’interno del raccolto spazio metafisico dell’automobile, opprimente nonostante la decantata spaziosità multiaccessoriata, con degli schermi sempre accesi su una realtà costantemente “mediata”, si fa strada, oltre che il desiderio sessuale del protagonista alle prese con le sue amanti, anche l’anelito “onni-potente” al possesso della “Cappella Rothko” di Houston (1972), che il rampante giovanotto vorrebbe far trasportare ed incapsulare all’interno della sua dimora per fagocitare anche la dimensione spiritualistica ed artistica più ineffabile, ed inoltre il timore paranoico, tipicamente da egocentrico di potere, che qualcuno voglia ucciderlo. Nato mutante (“Siamo stati allevati dai lupi”) capace di conoscere solo attraverso il possesso e l’esclusione dell’Altro, ora è minacciato dall’umano, a cui tende ad avvicinarsi auto-distruttivamente. L’entropia è in effetti ad un passo: il funerale di un musicista noto ammirato dallo stesso Packer (simbolo forse delle avanguardie ammortizzate dal Sistema), le agitazioni dei manifestanti che attaccano la sua proprietà privata (l’auto) e minacciano lui stesso con l’azione situazionista di un terrorista pasticcere (per non dire della trovata pure debordiana dei topi morti lanciati sugli avventori di una tavola calda o rappresentati con pupazzi oversize), e gli effetti sociali del terremoto finanziario, sembrano lentamente risucchiare il protagonista verso un cono d’ombra: lo stesso miliardario ha perso buona parte del suo capitale nella catastrofe delle borse, la giovane moglie seppur con modi soavemente civili, quasi (anche lei) da replicante, decide di separarsi da lui, che dichiara poi di sperimentare un senso di libertà mai provato prima. "Il denaro parla a se stesso ormai: ha perso la sua forza narrativa come la pittura". Se anche il “golden boy” sente di non avere più molto da perdere, è facile che si esponga a rischi che non è abituato a fronteggiare: il confronto serrato con la sua dark side fa assumere alla vicenda i contorni di un’odissea in una apocalissi simbolica, anche se, lo ribadiamo, vissuta quasi tutta in forma introflessa, non esplicitata dall’azione. Quando Packer rinuncia in maniera drammatica (non vi diciamo come) alla sua guardia del corpo dopo aver osservato dei ragazzi che giocano a basket in un playground, immagine della sua gioventù sa-crificata all’avidità, si avverte che egli è giunto ad un punto di non ritorno. Cronenberg vince dunque la sfida di creare un’opera squisitamente cinematografica per la pregnanza visiva pur restando fedele allo spirito concettoso e introspettivo del romanzo, tuttavia è irrefrenabile il brivido quando Packer ormai, rapito dalla sua parte animale, si spinge da solo in caccia del suo attentatore, pistola futuribile alla mano, in un block fatiscente, quindi fuori dalla sua giurisdizione esistenziale. Si suppone in quei momenti che forse il finale ci offra più movimento, ma anche qui il duello è intellettuale, in realtà, tra due aree di pensiero inconciliabili. L’anti-cinema di questo prodotto di Cronenberg materializza, in queste scene finali, la metafora più potente racchiusa nel film, il suo core ideologico, la citazione di Marx ed Engels che appare in un maxischermo visto attraverso un finestrino della limousine all’inizio del film, cioè la scritta: “Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro del capitalismo” (memorabile incipit del Manifesto del Partito Comunista del 1848). In effetti, nella sezione finale, questo spettro è Packer, ridotto(si) semivolontariamente all’ombra di se stesso, e certo non sembra più voler rappresentare le “magnifiche sorti e progressive” del capitalismo odierno, ma piuttosto voler misurarsi col mondo selvaggio, non edulcorato e potenzialmente incontrollabile, che lui aveva sempre cercato di ignorare. Il suo travaglio è nel confronto ultimativo tra la sua coscienza di essere umano esposto e il suo naturale antagonista, portatore di una coscienza non customizzabile, “deprivata” socialmente, corrispettivo “cavernicolo”, nel suo tugurio, della soggettività altrettanto estrema e claustrale, ma viziata, del protagonista. Ecco che Cronenberg recupera a questo punto la qualità materica, la “sporcizia” caratteristica di alcuni tra i suoi più tipici set, basti pensare a “Il pasto nudo”, e questo ancora una volta in contrapposizione all’asetticità degli ambienti cari a chi abita preferibilmente una realtà di simulacri, ma soprattutto ancora una volta ci mostra il momento in cui la stabilità delle identità e dei Sistemi vacillano, momento che qui, come ne “Il pasto nudo”, coincide, per citare le parole del regista, col “momento unico e bloccato in cui ciascuno vede ciò che c’è sulla punta della sua forchetta: cioè quel momento in cui ci si rende conto che la realtà non è che una possibilità, debole e fragile come tutte le altre”. Questa, per Packer, è la sua nemesi, il non plus ultra abissale della sua… “eXistenZ”, il livello in cui il videogioco della sua vita virtuale gli sbatte sul muso il “game over”. Le coloriture cultural-psicologiche arrivano al massimo stridore nel cozzo tra le due weltanschauungen, ma l’opposizione del giovane miliardario è debole, un’intera epoca tramonta con lui con toni lugubri per chi ha condotto i giochi fino a ieri. Oggi ogni capsula protettiva è venuta meno dinanzi all’irruzione di quell’umanità a lungo tenuta affossata da un manipolo di magnati pasciuti del dolore e della disperazione altrui. Paul Giamatti, un’attore ormai ampiamente segnalatosi all’interesse del mondo della celluloide e anche del più vasto pubblico, incarna sino in fondo, col suo volto profondamente umano che sembra rifiutare radicalmente qualsiasi artificio cosmetico e qualunque taglio di capelli edonista o “plastificato”, quello spirito emarginato pronto ad eruttare alla superficie della Storia, secondo le note e finora disattese previsioni di Marx, e dà luogo ad un confronto serrato, pregno di verità non comode, di “pulpiti” magari sgradevoli, che fa presa sullo spettatore per quanto quest’ultimo possa essere estenuato dalla densità della visione e dall’ascolto. La più lunga standing ovation (undici minuti) del Festival di Cannes 2012 ha premiato un lavoro all’insegna dei contrasti forti, da cui emerge sia il corpo che lo psichismo, com’è tradizione cronenberghiana, ma stavolta tanto contemporaneo (ormai) e necessario, quanto il romanzo di De Lillo è stato profetico. E se il caos a cui andremo eventualmente incontro dopo la depurazione dalle dere-gulations del capitalismo seguirà, come teorizzato nelle scene finali, le asimmetrie dell’anatomia umana e/o sarà quello del dripping pollockiano su cui compare il titolo del film all’inizio, in molti suppongo saremo pronti ad immergerci fiduciosi, concordi con la convinzione di Cronenberg che “l’Arte è sovversiva perché fa appello all’inconscio” contro le ingiuste repressioni della civiltà. Il Freud interrpretato da Viggo Mortensen in “A dangerous method” a questo punto direbbe: “L’ho sempre sostenuto!”
il7 – Marco Settembre